martedì 15 luglio 2008

Dialogo tra un sociologo e un teologo...

Di fronte alla sfida che la sociologia lancia alla teologia, come può rispondere la teologia?
Non ci può essere alcuna risposta se il terreno della discussione non è condiviso. La sociologia e la teologia prendono avvio da poli considerati opposti: la prima non ammette, più o meno apriori, ciò che la seconda tematizza e argomenta, cioè la possibilità di una rivelazione storica di Dio all’uomo. Il rischio effettivo è di un dialogo fra sordi. In radice è sempre una questione di scelta, di opzione fondamentale: scegliere di credere o meno alla rivelazione di Dio.
Credo però che il compito della teologia sia chiaro: offrire una chiara e precisa lettura della storia attuale, della nostra cultura, denunciandone i rischi e valorizzandone le potenzialità. La teologia può e deve offrire strumenti rigorosi di analisi del reale, alla luce della tradizione biblica ed ecclesiale.
Un esempio. La situazione in cui versa oggi la Chiesa, l’Italia e l’Occidente in generale, è drammatica: siamo frammentati, a tutti i livelli. La lenta e progressiva secolarizzazione ha portato all’apostasia e quindi alla dispersione e alla frammentazione: si è separato volutamente l’uomo da Dio, la fede dalla ragione e dalla morale, la fede personale dalla fede della Chiesa, la morale personale dalla moralità collettiva, il piacere della vita dalla fatica di vivere, la ricerca del benessere dal cammino spirituale, la bontà di una scelta dalla costanza nella scelta, le ragioni del cuore dalle ragioni della testa, ciò che sentiamo come vero da ciò che è vero. La secolarizzazione, questa sorta di “emancipazione” da Dio e dalla Chiesa, ha diviso e frammentato l’uomo, lo ha disperso in mille rigagnoli e lo ha confuso: siamo tutti storditi, sovreccitati e annebbiati da vecchi e nuovi sospetti, distrazioni di ogni genere, false profezie e infiniti guru.
Ci affanniamo nel mettere in cattiva luce la verità (fosse anche soltanto nella nostra coscienza), nell’oscurarla, umiliarla, schiacciarla, nel distruggerne i testimoni, nel contraddirne i concetti. Siamo diventati abili nell’anestetizzare la nostra coscienza, abili nel cercarci alibi, nell’assolvere noi stessi in nome di noi stessi, ci piace cambiare i nomi alle cose per farcele sembrare meno cattive (così, ad esempio, la pillola “del giorno dopo” non è più “abortiva” ma “pillola contraccettiva d’emergenza”), facciamo finta di non ricordare, di non sapere, di non vedere, di non sentire. Vogliamo rimuovere dalla nostra vita tutto ciò che ci espone al rischio e al dramma della responsabilità. La libertà fa paura, per questo si fugge dalla responsabilità dello scegliere: così si privilegiano visioni deterministiche del mondo e della natura (l’ultima moda è la genetica), si parla di destino o di karma, si cercano esperienze di estraniamento da sé e dal mondo.
La paura di vivere e di crescere ci paralizza. Perciò cerchiamo istericamente l’anestetico migliore. E l’anestetico fa sempre effetto: intorpidisce progressivamente, altera i sensi, offusca l’intelligenza, paralizza la coscienza, sclerotizza la volontà. Non cerchiamo più la forza per andare avanti: cerchiamo il piacere che fa dimenticare. Non scegliamo la libertà, ma la dipendenza. Fuggiamo da un Salvatore per buttarci fra le braccia del primo che passa, del cristo che ci fa comodo, del cristo a pagamento: l’importante è che assolva la sua funzione: non disturbarci più di tanto, farci provare qualche emozione forte, ecc. Non importa la spesa: l’importante è che mi dia ciò che cerco, con il minimo sforzo. Non importa nemmeno da dove venga: dall’Oriente, dall’aldilà, dalla meditazione, da dentro di noi. L’importante è che ci sia, che ci stia e che ci dia “la roba”: è un cristo spacciatore.
Ecco, questo è il compito della teologia: offrire una chiave di lettura credibile, interpretare il presente alla luce delle Fonti, saper riconoscere i segni di Dio nella storia di oggi, dialogare con le coscienze e ascoltare la voce dello Spirito.

La teologia si interroga di fronte al relativismo?
S’interroga e ne denuncia le conseguenze. Come ho detto prima, oggi si assiste alla deriva delle grandi istituzioni, cioè alla progressiva emancipazione da Chiesa e famiglia, dalle fonti della tradizione, della cultura, di una visione del mondo condivisa e condivisibile: non hanno più rilevanza sociale, non sono più riconosciute come custodi e garanti di un bene comune, di un patrimonio di valori, intuizioni, esperienze accessibili a tutti e a vantaggio di tutti. Questa deriva intimistica della fede e privatistica della morale sono il rifiuto di un’evidenza: apparteniamo ad una storia, ad un ecosistema, ad un universo ben preciso. Non soltanto abbiamo tagliato le nostre radici, ma ci crediamo gli unici alberi del giardino.

Ha senso credere senza appartenere? E l’appartenenza è controllo?
Si può credere in Dio o in Gesù Cristo senza appartenere alla Chiesa? A quanto pare sì, tant’è che molti si professano cattolici non praticanti, cioè cattolici che non partecipano attivamente alla vita della Chiesa. È pur vero, però, che proprio questa professione di fede cattolica rivela da una parte la propria origine ecclesiale: cioè ogni cattolico nasce ed è educato, almeno fino alla Cresima, in un preciso contesto parrocchiale; dall’altra, che si condivide, in maniera più o meno completa e approfondita, il Credo cattolico, che è il Credo della Chiesa. Insomma, per dirsi e per vivere da cattolici non si può prescindere dalla Chiesa.
Per capire il nesso fra fede personale e Chiesa, può essere illuminante l’esperienza di Samuele, il grande profeta biblico. Samuele è cresciuto fin da bambino all’ombra del Tempio, ma, come dice la Scrittura, “fino ad allora non aveva ancora incontrato il Signore”. Samuele vive nel Tempio, fa il chierichetto e il sagrestano, legge e canta, eppure non ha mai incontrato il Signore: com’è possibile? Sarà il Signore ad avvicinarsi a Samuele, per ben tre volte: ma Samuele non sa riconoscere la voce del Signore. Il Signore non si stanca: continua a chiamarlo. Allora Eli - da cui Samuele andava ogni volta, pensando che fosse lui a chiamarlo nel cuore della notte -, intuisce che sta accadendo un incontro tra Samuele e il Signore e suggerisce la risposta da dare: “Parla, Signore, che il Tuo servo Ti ascolta”. E finalmente avviene l’incontro. Qui è fondamentale il ruolo di Eli: ci vuole qualcuno che mi offra una chiave interpretativa, che mi educhi a riconoscere la voce del Signore, a riconoscerne la presenza, i segni del Suo passaggio. Per gli Ebrei e per noi Cattolici i paletti sono molto precisi: il canone biblico (la Bibbia) e la Tradizione (la storia di fede della comunità). Nient’altro. S. Gerolamo diceva: “l’ignoranza delle Scritture è ignoranza di Cristo”. Ma possiamo aggiungere: “l’ignoranza della Tradizione è ignoranza di Cristo”. E per Tradizione bisogna intendere tutto quanto riguarda la vita della comunità cristiana: i pronunciamenti dei Papi, i documenti dei Concili, la vita dei Santi, la mia vita interiore e quella dei miei fratelli, nel bene e nel male. In una parola: la Tradizione è il fratello di fede che mi ha preceduto e che cammina con me oggi. Ciò vuol dire che da una parte abbiamo la libera iniziativa di Dio, la Sua imprevedibile rivelazione, dall’altra la fede di chi è già stato chiamato da Dio. La mia fede, suscitata da Dio, ha bisogno del fratello per crescere e maturare. La mediazione fraterna - fatta di preghiere, di annuncio, di testimonianza - è indispensabile per la mia fede. Il Dio biblico è Dio di un popolo, di testimoni innestati nelle vicende di un popolo, di chiamati al servizio della fede di un popolo.

Fede e ragione in che rapporto sono?
Mai l’una senza l’altra. La fede senza la ragione diventa fondamentalismo o sensazionalismo; la ragione senza la fede scade nel razionalismo. Chi le oppone, chi privilegia l’una contro l’altra, ottiene una visione distorta del fenomeno religioso, una visione anti-storica, anti-umana. Il luogo d’incontro di fede e ragione è la storia, la storia di uomini e donne dai nomi e dai volti precisi. Il fondamento della fede cristiana è pratico, cioè nasce da un’esperienza, dall’esperienza dell’incontro personale con Gesù Cristo. Non nasce da istanze razionali, etiche, sociali, di un gruppo o di una nazione: la cultura può predisporre, può offrire strumenti e categorie per conoscere la verità cristiana, ma l’adesione di fede è un evento suscitato dall’irruzione di Dio nella propria vita. In questo senso, proprio perché atto eminentemente umano, l’adesione di fede è un fenomeno storico conoscibile, verificabile, indagabile dalla ragione. Insomma, la fede non pregiudica l’indagine razionale, la conoscenza storica e viceversa: questa è la forza e la novità del Giudaismo e del Cristianesimo.

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